Negli ultimi anni, l’impiego degli antidepressivi è aumentato sensibilmente, complice una maggiore sensibilità verso il benessere psicologico e la cura della salute mentale.
Tuttavia, accanto ai benefici riconosciuti di questi farmaci, cominciano a emergere alcune preoccupazioni legate a potenziali effetti collaterali sul piano fisico. Alcune ricerche recenti, infatti, sollevano interrogativi su possibili rischi a lungo termine, in particolare per quanto riguarda il sistema cardiovascolare.
Sebbene le evidenze non siano ancora definitive, gli esperti invitano alla cautela e a una maggiore attenzione nell’uso prolungato di queste terapie.
Negli ultimi anni, alcune ricerche scientifiche hanno sollevato preoccupazioni sull’associazione tra uso prolungato di antidepressivi e il rischio di morte cardiaca improvvisa (MCI). Uno studio danese condotto su oltre 4 milioni di adulti ha registrato circa 6.000 casi di MCI nel solo 2010, rivelando che chi assume antidepressivi da 1 a 5 anni ha un rischio aumentato del 56%, mentre il rischio sale oltre il 120% nei soggetti che li assumono da più di sei anni.
I dati, pubblicati sulla rivista Heart e presentati all’EHRA 2025, mostrano un’associazione più marcata tra i 30 e i 59 anni, con picchi di rischio fino a 5 volte superiori nella fascia 30–39. Tuttavia, trattandosi di uno studio osservazionale, i ricercatori precisano che questi numeri non provano un nesso causale diretto: lo stato psichiatrico del paziente o stili di vita non salutari potrebbero essere fattori confondenti.
Le ipotesi principali includono effetti aritmici legati al farmaco, come il prolungamento dell’intervallo QT o sincopi improvvise. Alcune molecole, come venlafaxina, mirtazapina e trazodone, sembrano avere un potenziale aritmico maggiore rispetto ad altri antidepressivi.
Non è necessario abbandonare la terapia antidepressiva, ma è fondamentale adottare un approccio più sicuro, personalizzato e attento. Un primo passo consiste nel valutare attentamente la durata del trattamento: laddove possibile, si può procedere con una riduzione graduale del dosaggio dopo il miglioramento dei sintomi, accompagnata da una periodica rivalutazione del rapporto rischio-beneficio.
Un ECG di base è fortemente consigliato nei pazienti con fattori di rischio cardiovascolare o in terapia con farmaci che influenzano l’intervallo QT. Anche gli SSRI, pur considerati più sicuri rispetto ai triciclici, possono indurre prolungamento del QT, soprattutto se associati ad alterazioni elettrolitiche o ad altri farmaci a rischio. È buona norma monitorare regolarmente la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca e la comparsa di eventuali sintomi come palpitazioni, vertigini, tachicardia o svenimenti.
Nei pazienti con storia familiare di aritmie o QT già allungato, può essere opportuno considerare farmaci con minore impatto cardiaco. Importante è anche il controllo degli elettroliti, poiché condizioni come ipokaliemia o ipomagnesiemia possono aumentare il rischio aritmico. Un percorso terapeutico integrato che comprenda anche psicoterapia, educazione sanitaria e stili di vita sani può aiutare a ridurre l’uso a lungo termine degli antidepressivi, senza compromettere l’efficacia del trattamento.
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