La sanità italiana è spesso al centro di lodi per la sua efficienza, ma ci sono aspetti meno visibili che meritano attenzione.
Esistono dinamiche poco conosciute che, seppur perfettamente legali, rischiano di compromettere la qualità del servizio e la sicurezza dei pazienti. In alcune strutture, il personale non sempre lavora in condizioni ottimali, e certi meccanismi sembrano favorire più l’efficienza economica che quella clinica.

In questo contesto, il ruolo dei cosiddetti “gettonisti” — medici esterni chiamati con contratti temporanei e retribuzioni elevate — solleva interrogativi legittimi. I turni prolungati, la mancanza di continuità e una gestione poco trasparente possono diventare terreno fertile per criticità silenziose.
Il paradosso del medico “gettonista”
La figura del medico “gettonista” è nata come soluzione tampone per sopperire alla cronica carenza di personale negli ospedali pubblici. Si tratta di liberi professionisti assunti tramite cooperative o agenzie interinali, pagati su base oraria e spesso senza vincoli di continuità o inserimento stabile nel sistema.
Tuttavia, ciò che doveva essere un rimedio straordinario è diventato la norma in molte strutture italiane. I gettonisti arrivano a guadagnare cifre considerevoli, anche superiori ai 1.000 euro al giorno, come dimostra il caso emerso nel basso Lazio, dove un medico ultrasettantenne ha lavorato oltre 140 ore settimanali tra più presidi ospedalieri.
Turni estenuanti, spostamenti continui, nessuna pausa sufficiente per recuperare: un sistema che premia la disponibilità estrema, ma che mina le basi della sicurezza.

Il vero paradosso è che si retribuisce abbondantemente la precarietà, mentre si abbandona la stabilità e la qualità dell’assistenza. Questa dinamica danneggia anche i medici strutturati, che si trovano a lavorare accanto a colleghi occasionali senza conoscere le loro competenze o abitudini cliniche. In questo cortocircuito, l’organizzazione sanitaria si frammenta, lasciando spazio a inefficienze, disservizi e – nei casi peggiori – conseguenze tragiche per i pazienti.
Il prezzo della disumanizzazione: quando la sanità uccide
Oltre le statistiche e gli stipendi esorbitanti, restano le vittime silenziose di un sistema che ha smarrito la propria missione. Come nel caso del giovane studente di 24 anni, morto nel pronto soccorso di Cassino dopo ore di attesa, senza ricevere le cure necessarie. In quel turno, un medico “gettonista” stremato – reduce da dodici ore di lavoro in un altro ospedale – era solo a gestire l’emergenza.
Troppo provato per intervenire tempestivamente, troppo isolato in una macchina che pretende efficienza a ogni costo. Quando un medico viene trattato come una risorsa da spremere, anche il paziente diventa un numero, non una persona. L’errore non è solo umano, ma sistemico: è la conseguenza di una politica sanitaria che preferisce soluzioni rapide ai problemi complessi.
Servono riforme vere, che mettano al centro la dignità di chi cura e di chi viene curato. Perché la sanità non può essere un mercato, ma un presidio di civiltà. E quando si dimentica questo principio, ogni corsia rischia di diventare il teatro di tragedie evitabili.